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Jason non aveva mai subito il fascino atavico del firmamento fino all'età di diciott'anni, quando capitava in quella tarda primavera di andare tutti alla scogliera ad ammirare il rientro degli sventurati eroi dello spazio.

 Un divertimento che in seguito avrebbe giudicato un po’ sadico; ma allora, che male poteva vedervi quella spensierata gioventù? Mica era colpa loro se l’astronave che riportava sulla Terra i primi eroici esploratori delle lune di Saturno aveva subito un’avaria molto seria, tale da costringere cinque dei sette membri dell’equipaggio ad un’imprevista passeggiata spaziale per riparare il guasto; e mica era colpa loro se poi, durante le riparazioni, un serbatoio di ossigeno era esploso recidendo il cordone ombelicale dei cinque astronauti, impossibilitati a fare ritorno all’astronave, resi liberi di vagare indefinitamente nello spazio orbitale della Terra: indefinitamente, ossia fino a quando l’inesorabile dissipazione dell’energia cinetica degli astronauti (per l’attrito contro le molecole di gas, pur rade, che occupano lo spazio detto impropriamente vuoto), fino a quando tale dissipazione avrebbe richiesto (per il principio di conservazione dell’energia) un incremento dell’energia potenziale dei medesimi orbitanti, vale a dire l’avvicinamento al pianeta fino a lambire gli strati alti dell’atmosfera terrestre, con conseguente precipitare degli eventi: in tutti i sensi: l’atmosfera avrebbe ulteriormente rallentato i corpi fino a rendere non più sostenibili le loro orbite e non più prorogabile il ritorno al suolo secondo una perfetta traiettoria parabolica e una velocità via via crescente.

 In verità i poveri astronauti non sarebbero mai arrivati al suolo, consumati prima dall’attrito e arsi vivi come capocchie di cerini sfregati contro la ruvidezza del muro d’aria: lo sapevano quei ragazzi e speravano, quelle notti, di vedere il firmamento accendersi di una fiammata prima verde-azzurra, poi rossastra: i colori che sarebbero scaturiti da quei roghi celesti, in virtù della particolare composizione (carne umana, tessuti artificiali, componenti elettronici, metalli) di tali singolari meteoriti: lo dicevano gli esperti.
 Quattro astronauti avevano già fatto, così, rientro; per le imponderate variabili che rendono meno noiose le pur ferree leggi della meccanica celeste, ultimo a fare rientro sarebbe stato proprio il Comandante della missione, il colonnello Kursk (lo si sapeva perché il suo apparecchio ricetrasmittente aveva miracolosamente resistito, consentendogli poi di continuare a comunicare per diverse ore). Ora, benché fosse chiaro a tutti che le probabilità di vedere il rientro del Comandante Kursk erano uniformemente distribuite in una larga fascia geografica che abbracciava il mondo intero, pur tuttavia la minima possibilità che ciò accadesse alimentava la speranza, e la speranza il gioco; che poi era di ritrovarsi tutti insieme a far baldoria.

 Il Comandante, però, a quanto pareva non voleva saperne di cadere né sopra le loro teste né altrove: non si poteva esserne certi, ma era probabile che stesse continuando ad orbitare: cadavere ormai, s’intende. Così il gioco, dopo quasi un mese dall’incidente, andò lentamente svanendo e per la tresca un po’ alla volta si dovette passare ad altri svaghi.
 Non per Jason ed Emma, che nel frattempo si erano invaghiti l’uno dell’altra.

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Jason:
 — L’umanità non è altro che tabacco sminuzzato, tritato, pigiato e rinchiuso nell'involucro di carta della sigaretta; lì, nella più fitta tenebra, ciascuno attende con pazienza e fiducia che il cielo si apra, che il fuoco scenda dal cielo ad infiammarlo perché possa ardere di luce propria, finalmente vivo, libero, nell'aria aperta che soffia sul braciere collettivo; poter veder il mondo e mostrarsi al mondo!… Per poco, tuttavia: quel medesimo fuoco che lo farà visibile non tarderà a divorarlo; quando infine il momento arriva, ecco è già passato, già è il momento di scrollare la cenere.

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Jason non aveva mai subito il fascino atavico del firmamento fino all'età di diciott'anni, in quelle notti d'estate dense di lucciole e di meteore, quando tornava in macchina alla scogliera per fare l'amore con Emma. Gli sarebbe anche potuto sembrare romantico, in fondo, se fosse stato davvero innamorato, ma non lo era; non quanto lei; o almeno questo credeva.

 Così, dopo un amplesso frettoloso e distratto, se ne tornava al suo posto ed incrociava le dita dietro la nuca, pensando agli amici che si sbronzavano da qualche parte e che avrebbe voluto subito raggiungere; cullando velleità artistiche e capolavori che avrebbe voluto scrivere, dipingere, scolpire, comporre; formulando abbozzi di teorie scientifiche e sistemi filosofici rivoluzionari; sospirando al senso amaro di incompletezza che lo accompagnava sempre, anche nei momenti apparentemente più spensierati; rimuginando, infine, sull'inutile accanimento con cui su costringeva a macerarsi in tutto questo. Lo consumava, poi, il desiderio ardente di avventure folli, inenarrabili.

 Intanto, contemplava le stelle che trepidavano nel cielo immenso e profondo. A volte, nell’immutabilità delle geometrie siderali trovava pace, insieme al firmamento, anche la sua coscienza mobile e irrequieta; altre volte, invece, era come sopraffatto dalla visione di infiniti spazi aldilà del cielo e di infiniti universi che si gonfiavano come bolle di sapone col loro seguito di galassie, ammassi, superammassi, quasar, pulsar, vortici di stelle intorno a buchi neri, contorsioni di stringhe spazio-temporali, e ancora asteroidi e rocce erranti, comete, polveri interstellari, nebulose, pianeti rotanti come enormi trottole lanciati, col loro seguito di lune, nella notte dei tempi e degli spazi, intorno a un sole votato all’estinzione, verso l’inesorabile nulla fatto di gelo, di silenzio, di tenebra sconvolta. Vedeva mondi dalle atmosfere sature di vapori, dagli oceani caldi, dagli incredibili paesaggi inestricabili e misteriosi, nei quali si manifestava fra acqua, terra e cielo il brulicare della vita. Allora, provava qualcosa di simile a un religioso terrore: il medioevale timor Dei, o meglio lo sgomento di fronte alla sconfinata potenza dell’Esistente. Potenza che non è creatrice, perché tutto già esiste, tutto è già stato creato.

 In quelle strane serate alla scogliera, la volta celeste era come uno specchio concavo che rifletteva i suoi pensieri; ma, deformandoli, vi apriva inaspettate prospettive. Lo affascinava il mistero del Tempo, di cui si discorreva spesso con Emma, laureata in filosofia; forse la cosa più bella di quelle serate.

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“ Per Isaac Newton è una dimensione assoluta: una scala graduata e universale incisa nel titanio, lungo la quale si collocano gli eventi. Per Albert Einstein è la quarta dimensione di uno spazio elastico inseparabile dall’evento: materia fluida che si deforma, gli orologi molli di Salvador Dalì. Per Sant’Agostino è una dimensione interiore, ineffabile: «Se non me lo chiedi, so cos’è; se me lo chiedi, allora non lo so più».

 “ Vi sono molti tempi, come ci ricorda anche il simbolismo del
Giano bifronte: dei due volti contrapposti, uno guarda al passato che non è più, l’altro guarda al futuro che non è ancora. Ci si può domandare allora quale sia il vero volto di Giano. Nessuno dei due, ovviamente: vi è infatti un terzo volto che guarda il presente, invisibile, così come il presente, nella manifestazione temporale, non è che un istante inafferrabile. Qui si racchiudono raffinatezza e malinconia del pensiero classico sul tema del tempo: al pari di Giano − Signore del triplice tempo − l'uomo occidentale volge uno sguardo nostalgico al passato, uno sguardo fiducioso al futuro, ma il vero sguardo, quello rivolto al presente, si dissolve nello struggimento dell'attimo che fugge inesorabile.

 “ Non diversamente, nella tradizione indù il terzo volto di Giano corrisponde all'occhio frontale di Shiva, anch'esso invisibile, poiché non rappresentato da nessun organo corporeo: se gli occhi sensibili costituiscono il senso della realtà contingente in perenne divenire, l'occhio frontale raffigura il senso dell’infinito immobile nell'eternità. Si dice che uno sguardo di questo terzo occhio riduca tutto in cenere: distruzione, o meglio trasformazione incessante di ciò che è manifesto, pura illusione,
Maya, rispetto all’Assoluto. Ma anche la trasformazione è apparente: la successione si tramuta in simultaneità, nell’eterno presente tutto è già stato creato, tutto è già avvenuto. In questo senso il simbolismo di Shiva, Signore dell'eternità, ci riporta a Cristo: «Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine». Al pari di Shiva, l'uomo orientale volge uno sguardo distaccato al passato, uno sguardo disinteressato al futuro, ma il vero sguardo, quello rivolto al presente, si dissolve nell'eternità che tutto comprende.

 “ Qui sta la differenza fra Oriente e Occidente.

 “ Tuttavia la suddivisione del tempo in passato, presente e futuro, che a noi eredi della cultura greco-romana pare così immediata, e perfino banale, non è invece altrettanto scontata presso altri popoli della Terra. Non è raro infatti che manchi uno dei tre termini.

 “ Vi sono popoli che ignorano il futuro: si può citare l'esempio di una sperduta tribù dell'Africa sub-sahariana la cui sopravvivenza − costantemente minacciata da guerre, carestie, epidemie − da sempre è così incerta che si è finito per perdere la necessità o semplicemente l’abitudine di riferirsi all’avvenire. Nella lingua di questa tribù non esiste la parola ‘domani’, e sono praticamente cadute in disuso le forme verbali che servono alla rappresentazione di azioni future. A dire il vero, alcune espressioni sono rimaste, frammenti superstiti di tempi migliori:
«Patirò sempre la fame» e «Forse domani i miei figli moriranno» sono casi esemplari di espressioni arcaiche divenute ormai proverbiali. D’altra parte, la letteratura medica ha reso celebre il caso clinico di Pablo Mesquiño, immigrato portoricano a New York, disoccupato, divorato dai debiti e dalla fame, al quale pare non riuscisse di coniugare i verbi al futuro.

 “ Vi sono popoli, invece, che preferiscono ignorare il passato, depositario delle memorie, e dunque dei dolori che abbiamo patito:
«Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scordiamoci il passato, siamo a Napoli paisà!», cantano i napoletani. Per costoro, il passato è pomodoro, e il passato remoto è semplicemente pomodoro andato a male.
 “ A volte possono mancare perfino due dei tre termini: generalmente, in questi casi, non si tratta di popoli, ma di particolari categorie di persone. Gli amanti, ad esempio. C’è l’innamorato che vive in un presente senza tempo. C’è chi è stato lasciato e vive nel ricordo di un amore irripetibile. C’è infine il sognatore, l’idealista che è dentro di noi e vive nell’attesa del grande amore, chissà mai quando verrà. ”

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Emma:
 — Non credo di essere ciò che avrei potuto essere, nella mia vera natura. E poi, esiste una vera natura? Non so. A volte ho come l'impressione di scorgere dentro di me un sentiero che avrebbe portato lontano, molto lontano, ma che il corso della mia vita non ha imboccato. Nonostante questo posso quasi dire di essere felice.

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“ Vishnù giaceva addormentato fra le spire di Ananta, sognando la creazione a venire; ma una fanciulla giunse in sogno a turbarlo, dal suo membro scaturì il seme ed egli si risvegliò. Il sogno della creazione fu interrotto irreparabilmente.
 Fu così che il cosmo restò zeppo di difetti e il risultato possiamo vederlo: il regno dell'ingiustizia e dell'assurdo. Sia maledetta la debolezza di Vishnù. ”

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Le spiegava, Jason, nell’Eterno Presente tutto esiste, tutto è già stato creato: il gioco inarrestabile delle infinite combinazioni porta necessariamente a innumerevoli universi dove accadono tutti i possibili eventi; o meglio, dove ogni possibile evento non è che accada, semplicemente è lì ad aspettarci, e noi non facciamo altro che incontrarlo al nostro passaggio… Come in un gioco di riflessi fra specchi che si fronteggiano, vi sono infiniti universi ed innumerevoli mondi in cui siamo esistiti, esistiamo, esisteremo; in forme simili a questa, proprio con questo corpo, questa testa, questo cuore, conducendo una vita perfettamente identica; oppure assolutamente diversa; oppure, forse, differente per un solo gesto, un solo pensiero, un solo istante. Secolari concetti mostrano per questa via la loro sottile fragilità: io e altro, esistenza e morte, felicità e sofferenza, amore e odio, bene e male… Jason intuiva la nullità di una singola esistenza, e quanta presunzione nasconda una parola tanto amata: libertà. Quale importanza può avere una mia azione, un’azione che infinite volte ho già compiuto, ma che altrettante volte io stesso ho scartato, contraddetto, sconfessato? E quale importanza, dunque, può avere una singola vita, mera sequenza di azioni casuali e di per sé insignificanti? Dove sta dunque il libero arbitrio dell’individuo? Giacché ogni uomo è tutto e al tempo stesso è niente: ogni uomo è a un tempo dannato e eletto, abietto e santo, eccelso e infimo: solo la somma di infinite esistenze, solo il Tutto può avere importanza. È poi così terribile il Robespierre che eternamente risorge, eternamente invocato dai francesi e alzato sugli scudi affinché egli possa tagliare le loro stesse teste? Per ogni Robespierre macellaio, ve ne sono infiniti altri che riattaccherebbero le ali a una mosca. E poi non è la lama a muoversi, semplicemente la lama è lì: sono i francesi che ciclicamente la incontrano al loro passaggio, e piegano la cervice, e vi si gettano ansiosi di provarne il taglio; ma non si tema: per quante teste cadano, innumerevoli altre ancora cadranno senza che nessuna vada perduta...

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Così Jason:
 — Non siamo che meteore, e come le meteore, puntuali, ogni anno tornano a sciami, gli uomini tornano alla Terra, ciclicamente, eternamente.
 — Ancora questa tua teoria della reincarnazione regolata da una legge karmica applicata al multiverso quantistico? — così Emma.

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Succedeva a volte, con Emma, che discutessero accanitamente intorno agli argomenti più astrusi e strampalati (erano entrambi decisamente inclini al pensiero astratto, di stampo metafisico, e in genere a quanto vi è di più distante dal senso pratico − in ciò lei si dimostrava esemplare affatto insolito del genere femminile, notoriamente avverso alle astrattezze); altre volte, invece, le parole di lei gli scorrevano intorno senza catturarlo, senza riuscire ad inserirsi nell'alveo sotterraneo delle sue riflessioni; o piuttosto vi galleggiavano come bolle d'olio, in superficie, trasportate da una corrente imprevedibile, incontenibile. A volte le parole di Emma lo strappavano dalle sue visioni, e Jason replicava con determinazione; altre volte, invece, lei si abbandonava a un profluvio di pensieri vaghi, leggeri, che lui percepiva distrattamente continuando a seguire con lo sguardo i tracciati siderali delle antiche costellazioni.

 Proprio quella sera, Emma attaccò uno strano discorso che finì per distogliere Jason dai suoi lambiccamenti: parlava di ciò che avrebbe potuto essere e che non è stato, di sentieri perduti nel passato, o qualcosa di simile: parole più adatte ad un uomo di mezza età, che a una ragazza appena ventenne (ma a volte, anche in un giovane, la consapevolezza di una vita che ti si chiude intorno come le valve d’una conchiglia, può manifestarsi con amara precocità).
 Jason, dissimulando un ironico sorriso, si limitò a commentare: — Non mancherai di percorrere ogni sentiero, compresi quelli che nemmeno immagini. Ci saranno sufficienti vite a questo. Quanto alla felicità, la trovo semplicemente incompatibile con una visione lucida della condizione umana, in generale, e con l’ansia di vivere che mi tortura, nel mio caso specifico.
 — Ma non è contraddittorio? Voglio dire, perché torturarsi per le limitazioni di questa vita, quando sai di avere a disposizione infinite vite in cui compiere tutte le esperienze nemmeno immaginabili?
 Jason non rispose.

 Sfrecciava una meteora, ogni tanto; ma il colore della fiamma diceva che non si trattava del Comandante Kursk… Le spiegò che secondo un'antica tradizione indù le meteore sono i segnali celesti dei bodhisattva, le grandi anime che hanno rinunciato al nirvana per incarnarsi di nuovo sulla Terra e poter guidare anche il resto dell'umanità alla perfezione: Buddha, Cristo, Maometto. (A dire il vero questo Jason se l'era inventato.)

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Jason:
 — […] Per qualche misterioso motivo l’Assoluto ha stabilito che il sacrificio sia il senso della vita, anzi la stessa carne della vita. Se il sacrificio è il rito con cui il sacrificante rende grazie alla divinità, immolando la vittima, per i doni che ha ottenuto o richiesto, ebbene la vita nella sua interezza è un rito sacrificale che unisce sacrificante, vittima e oggetto del sacrificio. Il sacrificante è il Sé, la consapevolezza assoluta che, priva di un Io, non avrebbe alcunché di cui essere consapevole. La vita nasce nel momento in cui l’Assoluto dota il Sé dell’Io: un dono, il dono della vita, appunto: ma come tutti i doni richiede qualcosa in cambio. E ciò che viene dato in cambio è la vita stessa. Se il Sé è il sacrificante, quel medesimo Io che costituisce il dono, l’oggetto per cui si attua il sacrificio, costituisce anche la vittima. Quel che si dà in cambio del dono della vita, è la qualità della vita stessa: la vita si paga con la mortificazione di avere un corpo di cui sei schiavo, con la frustrazione di una mente dotata di una capacità di desiderare esperienze mille e mille volte più grande della possibilità fisica di vivere quelle esperienze. Capisci quel che voglio dire: ad esempio, desiderare di leggere tutti i libri che l’umanità ha scritto, e sapere che se anche potessi leggere ogni secondo della mia vita, dalla nascita alla morte, una pagina con un occhio e un’altra pagina con l’altro occhio, ebbene ciò che riuscirei a leggere non sarebbe che un frammento infinitesimo del tutto… Questa è la vita […].

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— […] Se è vero, come tu dici, ma io non lo credo, ma ammettiamolo pure, che nelle infinite vite a nostra disposizione noi viviamo tutte le possibili varianti che si diramano da ogni istante che viviamo, se è vero che l’esistenza è una rete di cui percorriamo tutte le maglie, allora, ad esempio, in una di queste varianti, che so, tu mi uccidi, anzi, facciamo che ti uccido io, o magari ci suicidiamo entrambi, proprio qui, questa sera, di fronte all’oceano. Tuttavia ciò è impossibile, perché sono atti di cui né tu né io siamo capaci: non possiamo compierli, capisci? Non possiamo nemmeno realmente formulare la volontà di compiere tali atti. Non è nelle nostre corde. Il libero arbitrio è una chimera, e qui sono d’accordo con te, ma tu non ne trai le dovute conseguenze. Come gli arti di un pupazzo, le infinite possibili azioni dell’individuo sono collegate con un filo allo strumento che può metterle in moto e che sta in mano al burattinaio: la volontà, intendo dire. Tuttavia, in ciascun individuo alcuni di tali fili sono recisi, ogni individuo ha le sue particolari disconnessioni, e non c’è alcun modo di ristabilire i collegamenti mancanti. Questo significa che certe azioni, per ogni diverso individuo, sono impossibili: la volontà non può attivarle: la volontà non può realmente volerle. Ogni uomo può volere solo ciò che la sua natura ha voluto per lui: questo è ciò che resta del libero arbitrio: un’illusione […] Ogni azione è preceduta da un atto di volontà, che a sua volta è preceduto da una velleità. Perché vi sono velleità che restano tali, e altre che sfociano in un atto di volontà che produce un’azione? Cosa trasforma la velleità in atto di volontà e questo in azione? Le possibilità sono due: o vi è una causa, fisica o trascendente che sia, oppure non vi è alcuna causa: la prima implica che non c’è libertà, la seconda ammette la libertà, ma al prezzo della casualità, poiché ciò che è incausato è necessariamente casuale […] — così Emma.

 Non di rado le esternazioni di Emma irritavano Jason, e tanto più lo irritavano quanto più erano nette e appassionate; ma non per ciò che esprimevano (in molti casi egli era sostanzialmente d’accordo): sarebbero state ugualmente irritanti anche parole che avessero espresso, con altrettanta sicumera, un'opinione esattamente contraria. Non si trattava del contenuto delle idee, quanto del loro modo d'essere: non tollerava, Jason, non aveva mai tollerato quel genere di opinioni così ben definite, radicali, totalmente schierate da una parte o dall'altra, senza sfumature, senza incertezze, senza oscillazioni da una parte e dall'altra. Forse perché non ne era capace. Attratto da troppe cose e da tutte in eguale misura, era il tipo perennemente indeciso sulla via da seguire, non per mancanza, ma per eccesso di scelta: il socialismo gli pareva auspicabile senza però che il capitalismo gli apparisse poi così deprecabile; la vita dell'intellettuale lo stimolava quanto la vita dei sensi (puramente edonistica, totalmente epidermica) lo seduceva; riusciva ad andare d'accordo con tutti, dai mascalzoni ai preti, perché in tutti riusciva a scorgere qualche aspetto interessante; e forse, infine, nemmeno le donne lo attraevano molto di più degli uomini… Per puro spirito di contraddizione, atteggiamenti seriosi suscitavano in lui ironico distacco; atteggiamenti superficiali, invece, riflessività e serietà.

 — Dunque, non sarei capace di ucciderti, neanche se lo volessi? — si limitò a commentare Jason.
 — Assolutamente no, non tu.

 All’improvviso Jason le fu addosso e senza nemmeno darle il tempo di capire la afferrò alla gola. Dopo qualche istante che parve eterno, il cielo fu attraversato da una fiammata verde e azzurra.
 — Il Comandante… Kursk… — riuscì a sibilare Emma con l’ultimo filo di voce che le restava.

 Jason lasciò la presa, guardò in alto e la vide: non più la fiamma verde-azzurra, però quella rossastra sì: piccola ma innegabile, rapida come un battere di ciglia, debole come la fiamma di un cerino sfregato contro il cielo e spento subito da un alito di vento, quel vento che già si impadroniva delle ceneri e le disperdeva sopra le loro teste, sopra l’incrocio dei loro molteplici destini.